29/03/11

Matilde Puleo intervista Elisa

D: Ciò che m’interessa del tuo lavoro è il continuo riferimento alla realtà delle cose nell’ambito di una tecnica ad olio che però in alcuni casi ha grandi gesti sapientemente controllati. Ci parli delle tue scelte visive?

R: Per me il riferimento continuo alla realtà è inevitabile. L’unico modo che ho per comprendere ciò che mi circonda è attraverso l’osservazione. Guardare le cose significa avere la possibilità di far parte di ciò che guardo, condividerlo e capire quella realtà.
Credo che se si esclude la realtà come senso si annulla l’uomo come significato. Credo che l’uomo, senza dubbio l’Artista, abbia la” missione “ di comprendere se stesso e la realtà che lo circonda; in questo senso le opere realizzate sono il frutto di questa ricerca. L’artista ha una grande responsabilità, vivere per lui è un vero mestiere.
L’utilizzo dei colori ad olio è per me la cosa più naturale, la più adatta. Dopo aver provato la tempera all’uovo bellissima per la sua lucentezza, ho scoperto veramente cos’è la materia solo con l’olio. Adoro la consistenza, la densità, l’intensità, l’elasticità e anche l’odore che questa materia conferisce al pigmento. Con il colore ad olio posso spaziare da vari spessori a diverse durezze fino alle trasparenze.
Preparo io i colori mesticando i pigmenti; a volte raccolgo delle terre in giro per il territorio. Le ultime le ho raccolte in un campo a Colle Val d’Elsa… Uso molto le terre. Non potrei fare a meno di quella di Cipro, la sua gamma cromatica è vastissima, dal bruno intenso all’ocra-arancio.
Ogni “spatolata” che metto è una cosa a sé, una sensazione. In ogni gesto c’è l’intenzione di mettere il senso di quella cosa, di quella forma, di quel dato colore (penso alla luce più chiara che taglia lo zigomo di una faccia). Cerco di non mescolare i colori nel quadro in modo che ogni gesto possa essere distinto dall’altro, ogni cosa deve rimanere pura di per sé. Ogni colore è un gesto e un segno compiuto, separato dall’altro. Come in una musica; ad una nota ne segue un’altra, ognuna è distinta di per sé, ma  nell’insieme formano una sinfonia. Voglio che tutto sulla tela sia chiaro e leggibile come una grafia. L’insieme dei tocchi sulla tela, dei gesti, crea l’immagine così come la percepisco nel momento. Per me è molto importante il momento in cui eseguo il lavoro. Per questo spesso eseguo lo stesso soggetto in momenti e/o giorni diversi. Ogni momento è a sé, come le “spatolate”. Ogni cosa è unica nel momento in cui è vissuta e ripeterla significa viverla di nuovo, quindi, in un nuovo lavoro.
Ho bisogno continuamente della realtà, di guardarla, di vederla. E’ l’unica cosa di cui mi fido e di cui posso fidarmi; quello che vedo, esiste.



D: Quali sono stati i tuoi inizi e i tuoi punti di riferimento?

R: L’inizio è stato faticoso, è stata una scelta sofferta. Diciamo che ho accettato questo mestiere quando mi sono resa conto che non potevo farne a meno.
Ricordo bene quando ho lasciato la facoltà di Lettere per l’Accademia. Per me “cervello e mano” devono andare di pari passo…voglio dire che in questa facoltà mi mancava la parte pratica, cosa con cui avevo preso dimestichezza alle superiori frequentando l’Istituto d’Arte; questo fare, teorico-pratico, mi aveva dato un senso di completezza intellettuale ed equilibrio.
Così gli inizi all’Accademia di Belle Arti di Firenze… ogni mattina mi recavo da Arezzo a Firenze. Alle 9 in punto ero nell’aula di pittura pronta ad “affrontare la cosa”. Ogni mattina alle 9:15 ero in piazza S.Marco sconfitta e di ritorno a casa… è andata così per un anno. Non riuscivo a lavorare in presenza degli altri, mi sentivo “scoperta” e incapace di tracciare un segno libero sulla carta. Così ho cominciato a lavorare da sola in uno studio ricavato nella taverna di casa. La mia prima serie di autoritratti è stata molto importante per stabilire una sfera intimistica che da lì in poi mi è stata sempre necessaria. Con uno di questi lavori ho partecipato e vinto il Premio Villa d’Adda.
L’anno successivo per non ripetermi ho provato a “cambiare aria”; prima a Siviglia alla Facultàd des Bellas Artes, poi a Berlino nello Kunsthochschule Berlin-Weissensee. Le cose non andarono meglio. Tornata a Firenze non avevo scelta: dovevo “affrontare la cosa”. Dopo aver parlato con il Prof. Bimbi mio maestro di pittura all’Accademia, mi trasferii con il suo consenso (perché così facendo avrei perso l’anno) in un edificio  abbandonato nel Mugello a dipingere con altri pittori.
Questo luogo mi ha dato l’opportunità di provare me stessa nei confronti della pittura, in maniera totale e libera. E’ stata una scelta estrema tanto che mi sono stabilita in quel luogo per 6 mesi, fino all’arrivo dell’inverno. Avevo una tenda da campeggio montata all’interno di un ex seccatoio di tabacco infestato, fatiscente, senza acqua calda, ma non importava. Ricordo quest’esperienza che risale a 7 anni fa, come ad una sorta di “età dell’oro”. Ogni giorno il mio unico pensiero era dipingere. Avevo una sorta di febbre da lavoro, uno stato inquieto e produttivo che mi possedeva. Credo di aver eseguito tre quadri al giorno per quasi tutta la mia permanenza alla Tabaccaia: praticamente ho fatto il ritratto a tutte le persone che abitavano il paese vicino, Cavallina.
Mi ricordo che ad estate matura, io e altri “colleghi”, abbiamo montato un gazebo sulle rive del lago di Bilancino, allestendo un vero prototipo di atelier en plain air. Molte persone del paese a fine giornata si recavano al lago per un bagno… e dopo potevano sedersi a farsi un ritratto sotto il gazebo.
Ma prima del gazebo al lago e in piazza a Barberino, in mio vero amico e complice è stato Carlo, il barbiere di Cavallina. Carlo è un uomo dolcissimo con cui sono entrata subito in sintonia. Spesso per pranzo mi sono recata a casa sua, dove la famiglia mi ha accolto come un nuovo membro. Sua figlia Laura ha un volto bellissimo, le avrò fatto almeno 10 ritratti! Ma la cosa più simpatica di me e Carlo era che ogni mattino mi recavo nella sua barberia con le nécessaire per dipingere. Così ogni cliente che entrava per farsi barba e capelli, si faceva anche il ritratto! Nella sua barberia c’era una luce bellissima che filtrava dalla tendina fatta di pietruzze azzurre e verdi… la mia postazione era subito accanto all’ingresso… Ho conosciuto tante belle persone in quel paese… Bruno il fattore, Ivo Guasti il poeta… tutte persone con le quali ho stretto un rapporto di amicizia che dura ancora oggi.
Grazie a tutte queste persone sono riuscita a fare tanti ritratti e a capire tante cose. Per la mostra che ci fu subito dopo questa esperienza dal titolo “Gente e luoghi del Mugello” esposi 50  di quei ritratti.


D: Nei tuoi lavori c’è un continuo processo di autoconoscenza che tu porti avanti tramite una ricerca sull’autoritratto. Vorrei che tu ci parlassi di questa scelta, anche perché, in genere, nella tua produzione non mancano i ritratti fatti ad altre persone. Come ma soprattutto cosa cerchi nei visi altrui?

R: Si è vero, uso spesso l’autoritratto per prendere coscienza-conoscenza di me in quel momento, o meglio in quello status mentis. Ho bisogno di guardarmi per capire come le cose modificano il mio aspetto. In ogni autoritratto c’è il tentativo di vedere quali tracce ha lasciato in me una cosa successa, o come il vissuto del quotidiano segna la mia figura; un giorno vissuto diventa motivo di riflessione e di osservazione. Per me è una sorta di preghiera che stabilisce la misura di cui ho bisogno per vedere le cose, per poterle contemplare.
Quando guardo il mio volto o quello degli altri, cerco sempre di identificare dei segni. Ogni cosa è scritta sulla nostra faccia, si tratta di imparare a decifrarla.
Per me la persona da ritrarre è molto importante; quando faccio il ritratto ad una persona, penso infatti che siamo in due a lavorare. L’altro è l’alterità. Entro in una sorta di comunione con l’altro che porta ad una comprensione più profonda anche di me stessa e, di conseguenza, ad una diversa coscienza delle cose. In poche parole posso conoscere meglio me stessa attraverso la misura di chi ho difronte, o meglio senza l’altro non potrei conoscermi. L’altro e la realtà mi danno una misura indispensabile per capire le cose. Senza la pittura come tramite non potrei capire niente di questo. Devo molto alla pittura.
Per questa serie di motivi per me è indispensabile lavorare dal vero. La presenza della persona diventa parte del vissuto, diventa quella precisa esperienza. Se mi privo di vivere quest’esperienza si affaccia la retorica di una data idea, e questo è pericoloso. Il simbolo diventa segno e le idee si fanno stereotipo. Ovvero si dà per scontato l’idea di una cosa senza guardarla in quel momento, nuovamente.


D: Hai al tuo attivo una serie di mostre interessanti, ci racconti quella che ti ha dato di più in termini umani e professionali?

R:Per me è stata molto importante la conoscenza del M° Sergio Vacchi sul quale ho fatto la tesi di Laurea all’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Ricordo la prima volta che giunsi al Castello… Vacchi ha un’aurea mistica, regale e misteriosa, inquieta e dolcissima. Mi venne incontro accogliendomi con una stretta di mano. Aveva una lunga tunica medievale verde scuro e un grosso anello con inciso il sigillo del castello. Mi disse: -Lei sta firmando la sua condanna a morte, lo sa!? Perché il mio modo di dipingere è stato condannato a morte dal Sistema…fare pittura oggi è pericoloso, siamo gli unici a portare la Verità e nessuno vuole fare i conti con queste cose…- . Per un anno ogni settimana mi sono recata al Castello di Grotti nel senese dove lui abita. Abbiamo veramente parlato molto. Attraverso di lui e i suoi racconti di vita su Morandi, De Chirico… ho potuto capire e ricostruire  mezzo secolo di storia dell’arte italiana. Capire Bacon, Kafka,… Devo molto a lui e alla moglie Marilena.
Dopo la tesi la Fondazione, che porta il suo nome, ha ospitato una mostra Curata da Enrico Crispolti dal titolo “L’arto Fantasma”. Credo che sia stata la mostra più interessante dal punto di vista professionale e umano. Sergio e Marilena sono due persone sorprendenti con le quali ho stabilito un forte legame.


D: Hai fatto una ricerca eccellente, dal carattere aperto e generoso sugli operatori sanitari dell’ospedale di Careggi di Firenze. A mio avviso, oltre a farti onore, la tua scelta ti avrà dato molto da molti punti di vista. Ci racconti tutto per filo e per segno?

R: Si è stata un’esperienza molto importante e formativa, mi ha messo alla prova da più punti di vista. Devo ringraziare il Dott. Enzo Morettini e il Prof. Adriano Bimbi senza i quali non sarebbe stata possibile la cosa. L’idea era quella di allestire all’interno del reparto di chirurgia generale dell’Ospedale di Careggi una mostra. Un lavoro fatto per quel luogo, con i ritratti delle persone che lavorano e abitano quei luoghi. I Dottori, gli Infermieri e gli O.S. hanno collaborato posando per il proprio ritratto. E’ cominciata così la storia al San Luca di Careggi. Dopo aver ricevuto una lista con i turni e i nominativi delle persone che lavoravano nel reparto, mi sono recata il quel luogo per 4 mesi una volta la settimana. Presto ho capito che il momento migliore, perché più tranquillo, era l’ultimo cambio di turno, quello dalle 20 fino alle 8. Uno dei primi ad essere stati ritratti è proprio il Dott. Morettini; quel giorno indossava una camicia a strisce azzurre e un golf rosso.
Come si può immaginare in Ospedale ci sono giornate in cui senti l’aria densa delle cose successe, altre volte senti invece il fluire di una vitalità positiva. Fra gli infermieri c’è una grande complicità e condivisione delle cose. A volte mi sono fermata a mangiare con loro e allora questa cosa si sente forte, è bella. Dopo circa un’ora dall’inizio del turno di notte, dopo aver “fatto il giro” tutti si riuniscono nella sala infermieri. “Il giro” sarebbe il controllo dei ricoverati prima della notte, a volte ho fatto “il giro” anche io…
Dopo “il giro” tutti si ritrovano nella sala infermieri. Il momento del pasto diventa come una sacra condivisione delle cose, di tutte le cose. E’ come una “festa” in cui ognuno porta il suo contributo; chi cucina, chi apparecchia, chi racconta delle storie o la giornata trascorsa…un momento magico. Ecco io mi sono inserita spesso in questi momenti.
Ho incontrato tante persone simpatiche. Ho un diario che annota tutto. Ho messo la foto di ogni persona il suo ruolo all’interno del reparto e sotto ho descritto il tipo di atteggiamento che ha avuto nei miei confronti. Alcuni si vergognavano di farsi guardare, qualcuno si è sistemato prima allo specchio, altri ancora incuriositi dalla cosa mi hanno fatto tante domande.
Dal punto di vista professionale posso dire che questo lavoro è stata una palestra per la memoria visiva. Ovviamente non potevo portare nel reparto tutto il materiale per dipingere. Mi sono attenuta a formati ridotti con telaio 35x30 cm che portavo già preparati in una valigetta; poi con la terra di Cipro e pennelli eseguivo il disegno del volto dal vero cercando di separare le zone di colore con i segni. Subito dopo portavo i ritratti  nel mio atelier dove potevo liberamente impastare i colori e completare il lavoro.
Ai più curiosi ho spedito una foto del lavoro via mail dopo l’esecuzione…molti l’hanno utilizzata come identificativo del proprio profilo su internet.

D: Di cosa ti stai occupando attualmente: ci racconti i tuoi progetti per il futuro?

R: Attualmente mi sto occupando di più cose… Una di queste è che sto cercando di mettere in relazione il volto delle persone con alcuni oggetti che gli appartengono e che egli sceglie come più rappresentativi. Invito la persona a posare per un ritratto e gli chiedo, per quell’occasione, di portare anche degli oggetti. Queste cose vengono disposte in piccole “scatole” appese al muro, come ex-voto. Prima eseguo il ritratto della persona poi, in un’altra tela delle stesse dimensioni, dipingo questi oggetti. Ho iniziato a lavorare sulle “scatole” 2 anni fa. Queste prime “scatole” erano delle vere stanze costruite, che poi ho allestito-arredato con vari oggetti e dipinto: ognuna di queste ambientazioni racconta una storia specifica, il titolo di ogni quadro è “La conseguenza delle cose”; potete vedere alcuni di questi lavori su wwww.flickr.com/photos/zadielisa/
Per concludere vorrei lanciare un invito, un appello. Cerco persone disposte a posare e/o promuovere la mia ricerca sul ritratto. Ogni individuo interessato può posare personalmente e/o coinvolgere luoghi di lavoro, enti o istituzioni disposte a collaborare prestando “volti” di chi abita determinati spazi. Potete trovare i miei contatti su il mio sito www.zadielisa.it oppure su www.zadielisa.blogspot.com

11/03/11

L'autoritratto come tentativo

"Senza la fede nell'idea che il nostro volto esprima il nostro io, senza questa illusione fondamentale, originaria, non potremmo vivere o almeno prendere la vita seriamente. E non basta soltanto identificarci con noi stessi, è necessario identificarci appassionatamente, per la vita e per la morte. Immagina di vivere in un mondo dove non ci sono specchi. Il tuo viso lo sogneresti elo immagineresti come un riflesso eterno di quello che hai dentro di te. E poi, a quarant'anni, qualcuno per la prima volta in vita tua ti presenta uno specchio. Immagine lo sgomento! Vedresti un viso del tutto estraneo. E sapresti con chiarezza quello che ora non riesci a comprendere: tu non sei il tuo viso. .. a forza di osservarmi allo specchio, ho finito per credere che quello che vedevo ero io. Ho un ricordo assai vago di quel periodo, ma so che scoprire l'io deve essere stato inebriante. Poi però arriva il momento in cui stai davanti allo specchio e dici: sono io, questo? E perché? Perché ho sodalizzato con questo qui? Che mi importa di questa faccia? E tutto allora comincia a crollare. tutto comincia a crollare." (M. Kundera, L'Immortalità).
Ma qual'è l'immagine restituita dallo specchio all'artista moderno? E' comunque sfuggente e dovrà essere fissata, bloccata, resa immobile e oggettiva perchè si configuri come documento psicologico relativo alla sua reale natura e interiorità. La difficoltà per l'artista consiste proprio nel fatto che il suo volto riflesso nello specchio è inadeguato a rappresentare il suo stato d'animo e quindi egli dovrà necessariamente trovare un equivalente formale di ciò che sente di essere: dovrà inserire nei contorni oggettivi del volto il dolore, l'angoscia e la sofferenza di un  determinato momento.
all'inizio di questo percorsoil nostro sguardo si posa dunque semplicemente su "un uomo", poi si soffermerà su  "un pittore", infine su "un individuo" che ha smarrito la propria identità, che è Altro, e il cui volto è, letteralmente, lo specchio dell'anima.


Vincent van Gogh, con i suoi numerosi autoritratti, è uno dei più autorevoli testimoni di questa ricerca disperata, e atratti ossessiva. In questa disperata coscienza del proprio dramma esistenziale la scelta dell'autoritratto, in tutta la su a tragicità, rappresenta la prova estrema di esorcizzazione del dolore ma anche un "tributo" al profondo narcisismo celato dietro di essa. Tale esperienza pittorica, in quanto rifugio e rimedio alla sofferenza, verrà profondamente condivisa dal pittore norvegese Edvard Munch. Anche Munch , quindi, utilizza la pittura per non lasciarsi schiacciare dal peso dell'esistenza precocemente influenzata dagli spettri della follia, della malattia e della morte. Da qui nesce, penso, il grande bisogno di produrre autoritratti, pittorici e fotografici, come per verificare la propria esistenza, e la collocazione della morte.


Ma "il volto umano/non ha trovato ancora la sua faccia" scrive A. Boatto. Dipingere il proprio volto come specchio dell'angoscia dell'anima e al contempo abbandonarsi ad una sorta di "narcisistico" compiacimento della propria stra-ordinarietà, lontana dalla mediocrità dell'uomo comune, avvicina Van Gogh a Munch, ma anche ad Artaud, come si legge in Lettere dal delirio: " La sorte di tutti gli illuminati di questo mondo è quella di essere scambiati per pazzi quando i sortilegi e la polizia ci si mettono di mezzo e una volta rinchiusi non hanno più la possibilità di esporre le loro idee sotto la minaccia di essere trattati da folli e curati come tali con tutta la barbarie scientifica".


Il volto delineato dia tratti di una matita nera è sospeso nel vuoto del foglio bianco, gli occhi sono quelli di un uomo che ha il coraggio e la forza di guardarsi in faccia il nulla ben consapevole che il suo stato di alienazione "è strutturale alla vita stessa, poichè ogni uomo è sé e altro al medesimo tempo, perché la sua solitudine e la sua angoscia per la propria finitezza sono la solitudine e l'angoscia di ogni altro, pur rimanendo assolutamente diverse e irriducibili" (G. Cortenova, La creazione ansiosa).
Artaud scrive Van Gogh. Il suicidato della società : "L'occhio di Van Gogh è quello di un grande genio .. prima di lui solo il povero Nietzsche ebbe questo sguardo che spoglia l'anima, che libera il corpo dall'anima, che mette a nudo il corpo dell'uomo, fuori dai sotterfugi dello spirito ... ma van Gogh ha colto il momento in cui la pupilla sta per precipitare nel vuoto, in cui lo sguardo, scaglato contro di noi come la bomba di una meteora, assume il calore atono del vuoto e dell'inerzia che lo riempie".
appare evidente la comunità di intenti degli artisti citati, nonchè l'impegno condiviso nella ricerca di sollievo al dramma esistenziale attraverso la forza dell'arte, quasi una forma di salvezza e di sopravvivenza in un mondo ostile e crudele; ma, non ultimo, emerge anche un profondo senso del proprio genio per cui l'artista, in un percorso di autorispecchiamento narcisistico, guardandosi, rappresentandosi, tiene testa alla morte.
(vedi anche Art e Dossier 275)