25/12/13


Elisa Zadi, L'agosto del Pomo d'Oro, 2013, olio su tela, 100x100 cm.
 

L’opera "L'Agosto del Pomo d'Oro" si ispira al racconto di Massimiliano Perna intitolato “Il sole non sorge più”: da questa storia Elisa Zadi ha tratto le due figure che vediamo dipinte in questo quadro. I protagonisti rappresentati sono i testimoni di una storia d'amore che finisce tragicamente in un campo di pomodori. Le due figure sono raffigurate frontalmente, rivolgono il loro sguardo profondo e indagatore dritto verso l’osservatore, per renderlo ancor più partecipe della drammaticità della loro avventura. Questa frontalità ci mette inevitabilmente davanti alla loro presenza fisica, che si impone come esistenza, imperando all'interno del quadro. Presenza che è altresì una rivalsa nei confronti di chi ha voluto annullare la loro identità nello sfruttamento del lavoro, togliendogli dignità e vitalità. La nudità dell'uomo contrasta il candore della veste leggera della donna, macchiata di rosso-sangue: la storia d'amore, infatti, termina rapidamente nella tragedia a causa dello stupro di lei e del suo conseguente suicidio. Le figure sono separate da una pianta di pomodoro che divide il quadro in due parti verticalmente, così come nel racconto il lavoro nella piantagione separa inevitabilmente la giovane coppia dal loro amore. La pianta di pomodoro si erge simbolicamente come un Albero della Vita tra questi due nuovi Adamo ed Eva. Il colore rosso rimanda al colore della vita, della passione e della morte, tre stati, tre elementi intorno ai quali ruota l'intera esistenza. Il rosso è così interpretato in tre modi diversi: il rosso aranciato del pomodoro significa la vita, il rosso vermiglio delle labbra di lei è la passione ed il rosso violaceo del sangue sulla veste simboleggia il dramma della morte violenta.

Elisa Zadi




IL SOLE NON SORGE PIÙ
Di Massimiliano Perna



Le notti d’estate al Sud, nei luoghi di campagna, sono piene di un silenzio composto da centinaia di voci, di sottilissimi, impercettibili rumori che lo rendono pieno, come l’aria fresca che sembra aver pietà di te, dandoti un po’ di ristoro, quasi a scusarsi per la terribile afa del giorno. Non c’è traccia del caos, dei turisti che passano e chiedono informazioni, delle auto che si avventurano tra le strade di mezzo per raggiungere il mare. Ecco perché, le notti d’estate, ogni tanto preferisco non uscire e starmene a casa, in campagna, andando un po’ in giro solitario, camminando tra gli arbusti ribelli della macchia mediterranea, gli ulivi, le piante e i muretti a secco pieni di erbacce e terra. È l’unico modo di ascoltare la notte e cercare di carpirle tutti gli ingredienti segreti di quel silenzio che ti entra dentro, ti osserva, guida il tuo respiro. Ogni cosa è immobile, a parte qualche fruscio improvviso tra le piante o il volo imponente del solito barbagianni a caccia di cibo. Anche i campi di pomodori, l’oro di questa zona, sono una distesa buia e immobile, esattamente l’opposto che di giorno, quando sembrano quadri dai colori accesi, occupati dalle schiene scure e piegate e dalle camicie chiare dei braccianti, che si muovono tra le piante e le cassette “macchiate” di rosso. Mi sembra di vederli, frenetici e sudati, stanchi e laboriosi, anche quando passeggio, di notte, lasciandomi alle spalle la mia casa, rustica, essenziale, nuda sotto le stelle, segnalata solo da una piccola lanterna dalla luce fioca. In realtà, non c’è nulla a muoversi nel buio, interrotto qua e là solo dalle luci sparse delle altre dimore e dei lampioncini piantati sui viali di ingresso. Il mare è in fondo, abbastanza distante da non permettermi di ascoltare il mugugno delle onde, se non nelle notti che seguono le giornate di vento furioso, che però sono rare, insolite. Normalmente, il vento debole e umido disegna un mare piatto che, se non fosse per le luci di qualche nave lontana, dei pescherecci o per i lampi regolari del faro, si confonderebbe con il profilo dei campi che dalla bassa collina discendono verso la costa sottostante. Tutto era così fermo e uguale, conosciuto, rassicurante anche la sera di luglio che capitò quell’incontro. Non avevo voglia di uscire e decisi di regalarmi un po’ di relax sdraiato sull’amaca appesa a due robusti rami del centenario albero di gelsi che accompagna le mie vacanze estive. Un buon libro, una birra poggiata su una sedia, con il mio cane disteso poco distante, addormentato e sognante, del tutto inadeguato alla guardia. Lo scenario quotidiano, familiare di una sera d’estate al Sud, con poche zanzare a disturbare le braccia e le gambe scoperte per godersi il tepore di una nottata che si annunciava poco umida e rischiarata da una luna quasi piena e argentata. Ovviamente, una decina di minuti dopo stavo già dormendo, con il libro aperto sul petto, la testa reclinata sulla sinistra e una gamba che per metà penzolava dall’estremità inferiore dell’amaca. Soltanto le zampe anteriori del mio cane che grattavano il mio polpaccio scoperto mentre con le altre due si reggeva in piedi, mi fece svegliare, circa due ore dopo, da quel piacevole
e profondo sonno. Dopo averlo accarezzato per rassicurarlo sulla mia ritrovata lucidità, diedi l’ultimo sorso alla birra rimasta e guardai l’orario. Un quarto alla mezzanotte. La notte era davvero incantevole, con la sua aria leggera e tiepida. Volgendo lo sguardo oltre il recinto e il cancello, in direzione della collina, le file di ulivi e i confini dei campi illuminati dalla luce lunare, senza alcuna foschia a filtrarla, sembravano disposti con una precisione scientifica da cui era quasi impossibile distogliere l’attenzione. Il sonno era scomparso in un solo istante e la voglia di tuffarsi in mezzo a quello spettacolo, attraversandolo con le mie gambe, era troppa. Apache, il mio cane, compensava la sua pessima attitudine alla guardia con una imbattibile capacità di leggermi nel pensiero: così, in un istante, saltellava davanti a me con le movenze di un danzatore tribale, accompagnando il suo ballo con dei lamenti che componevano una melodia piatta. Stava assecondando i miei pensieri. Non ci pensai due volte: afferrai una felpa e la torcia, calzai le scarpe, feci un cenno ad Apache e, in un minuto, ci trovammo fuori dal cancello, in cammino lungo la piccola stradina sterrata che, in salita, si infila tra i campi. L’odore di lavanda e gelsomino era inebriante e il silenzio che circondava il rumore dei miei passi e delle falcate a zig zag del mio cane, era il risultato dell’opera armonica di cicale, grilli e delle foglie smosse dal nostro passaggio. Attorno a me era tutto un gioco di ombre, che si attaccavano al dorso delle viti lontane, ritte, allineate e obbedienti come un battaglione di fanteria, o al profilo irregolare dei melograni, i quali assumevano le sembianze di strane creature dal volto paffuto e i capelli ispidi. Non ho mai avuto paura delle ombre notturne che popolano la campagna, né degli scherzi diabolici che gli alberi riescono a farti, quando d’improvviso lasciano cadere un ramo, una foglia o un frutto a un millimetro da te, interrompendo il silenzio dentro cui sei assorto. Ho avuto la sensazione, spesso, di vederli e sentirli ridere, non appena me li lasciavo alle spalle proseguendo il mio cammino. Apache, invece, è più timoroso e preferisce per un po’ camminarmi vicino, guardandomi ogni tanto per capire se è tutto a posto, prima di allontanarsi di nuovo e riprendere la sua indisciplinata ma accurata perlustrazione. Luglio è il mese migliore per queste passeggiate notturne, che spesso durano anche più di due ore. L’aria non è quasi mai ventosa, la temperatura è tiepida e meno umida che in agosto, così c’è meno foschia ed è più facile scorgere ogni piccolo angolo che la notte ti offre. Era proprio difficile, quella notte, smettere di camminare e respirare, guardare, registrare sensazioni da imprimere nell’anima. Anche Apache era più tranquillo e instancabile, tanto che si era allontanato di qualche metro più del normale. Riuscivo a vederlo e mi accorsi che si stava per addentrare in un campo di melograni di proprietà di una zia di mia madre. Era uno dei luoghi preferiti da Apache. Quello era l’unico campo in cui potevo lasciarlo più libero di correre e gironzolare, non tanto per la parentela con la proprietaria, quanto per il fatto che non era un terreno sorvegliato o particolarmente curato, ma abbastanza selvaggio. Lo vidi entrare mentre il mio sguardo andava un po’ più in là, al tappeto di
stelle che sembrava fosse in procinto di appoggiarsi sulla parte più alta della collina. Uno spettacolo a cui non riesco mai ad abituarmi. Ero concentrato nel cercare di individuare le costellazioni che puntualmente non riuscivo ad identificare, rinviando come sempre alla promessa di studiarle per bene. Era qualcosa che mi ripromettevo sin da quando ero bambino, più che altro per acquisire qualche nozione che mi permettesse, nel caso di un improbabile viaggio in sconosciute aree desertiche e desolate, di orientarmi e ritrovare la strada di casa. Mentre sorridevo rassegnato a questi miei ridicoli pensieri, sentii Apache abbaiare con la voce insolitamente rabbiosa, mentre le sue zampe posteriori e la sua coda spuntavano a intermittenza da un cespuglio ai margini del campo. Di norma, faceva così quando c’era qualcosa che lo turbava, iniziando nei confronti di essa un movimento a scatti fatto di balzi in avanti e immediati ritorni all’indietro. Non ero preoccupato, perché sapevo che il mio cane era in grado di fare lo stesso anche nei confronti di uno spaventapasseri o di un insetto o di un sacchetto di plastica impigliato tra i rami. Mi avvicinai cercando di calmarlo, ma mi accorsi con stupore che non smetteva e che la sua voce si faceva sempre più rabbiosa. Mi allarmai un po’ e acciuffai subito una delle assi di legno con cui la zia di mia madre aveva maldestramente chiuso la breccia aperta nella rete di recinzione. Apache, vedendomi all’erta, smise di abbaiare e si posizionò al mio fianco, incollato alla mia gamba destra come fosse un prolungamento dei miei bermuda. Scrutavo le fronde del gigantesco carrubo posto a meno di una decina di metri da noi; c’era qualcosa che non tornava, una sorta di ombra innaturale che spuntava dalla destra del tronco. Conoscevo a memoria quell’albero, che da piccolo riparava me e i miei cugini quando giocavamo a nascondino. Ne conoscevo ogni angolo, comprese le magiche ombre che partoriva quando il sole batteva forte o quando, la notte, la luna ne rischiarava la chioma e il profilo. Quell’ombra non l’avevo mai vista. Era come una mezza sagoma, che cercava di non farsi scovare e nel frattempo sembrava guardare verso di noi per accertarsi di non essere stata scoperta. Avevo l’impressione di scorgere una mano e una parte del braccio che afferrava la corteccia, e un ginocchio, più in basso, poggiato per sostenersi. In alto, mi sembrava perfino di vedere un pezzo della testa e il luccichio di un occhio. Cercavo di mettere il più a fuoco possibile quell’immagine per capire se fosse reale o il semplice frutto di una mia suggestione. Non mi restava altro da fare, se non avvicinarmi sempre di più, tenendo ben stretta l’asse di legno tra le mie mani, mentre il mio cane mi seguiva lentamente, teso e impaurito, spostandosi appena dietro di me. Man mano che proseguivo verso il carrubo, quella sagoma diventava sempre più reale e quel disegno che dubitavo essere un effetto del gioco tra luci ed ombre assumeva dei contorni sempre più materiali e concreti. Sentivo il mio cuore accelerare i battiti, una strana emozione mi faceva vibrare le braccia e riscaldava ferocemente il mio petto. Non mi era mai capitato di incontrare qualcuno durante le mie passeggiate notturne, o almeno non nascosto dietro qualche albero o cespuglio. Di solito avevo
incrociato un vicino o un custode, oltre a qualche turista smarrito che si era avvicinato a piedi a chiedermi quale direzione prendere per tornare verso il centro abitato. Ora ero lì, di fronte a una presenza inaspettata, che rimaneva immobile mentre mi avvicinavo. Fu quando mi trovai a meno di tre metri dalle fronde più lunghe del carrubo che una voce mi anticipò.
- Per favore, fermati lì, non ti avvicinare e non fare avvicinare il tuo cane.
Il tono era gentile, per nulla minaccioso, forse leggermente intimorito, ma mi parve di intuire che fosse preoccupato più per la presenza di Apache, che, a dispetto dell’indole tranquilla, aveva una mole non indifferente. La sua voce era chiara, ma sembrava stanca. L’accento non era italiano, somigliava a quello di un operaio slavo che aveva egregiamente sistemato l’impianto elettrico di casa mia e che qualche volta era passato a salutarmi in campagna. Non so perché, ma mi tranquillizzai.
- Chi sei? E che ci fai qui? – risposi con tono conciliante.
- Mi chiamo Florin. Faccio il bracciante. Posso spiegarti ogni cosa, ma ti prego di rimanere dove sei. Immagina che ci siamo stretti la mano e, se hai voglia di chiacchierare un po’, siediti lì.
Risposi accennando rapidamente al mio nome e al fatto che abitassi lì vicino. Poi nulla più. Per un tempo che mi sembrò infinito, restammo in silenzio, ma riuscivo a sentire il respiro affannato di quell’ombra che mi aveva parlato, mentre Apache adesso era seduto alle mie spalle, incerto, come in attesa di un mio cenno rassicurante. Davanti a me potevo vedere il riflesso delle pupille di Florin, che mi fissava, anche lui in attesa di una mia parola. Ad un certo punto, qualcosa dentro me mi suggerì di assecondarlo. Mi sedetti e quasi all’unisono Apache si spalmò per terra, con un sospiro a metà tra il sollievo e la stanchezza. Il suo muso era puntato verso di me ed era poggiato tra le zampe anteriori. Anche Florin si sedette, adagiandosi tra le foglie che rumoreggiavano sotto di lui.
- Perché ti nascondi? – chiesi.
- Non mi nascondo. Sapevo che saresti passato, ti stavo cercando.
- Cercavi me? E perché mai?
- Perché so che ami scrivere e ho una storia da raccontarti.
- Una storia? Beh, potevi passare da casa mia di pomeriggio, bussare e raccontarmela davanti a una birra e non sotto un albero, di notte.
- No. Questa storia devo raccontartela proprio qui, di notte, in mezzo ai campi di pomodori, mentre la quiete domina tutto.
- D’accordo, ma non ho nulla per scrivere ciò che vorrai dirmi. Non una penna, né un foglio. Ho solo una torcia con me.
- Non avrai bisogno di prendere appunti. Dovrai solo aprire le orecchie e ascoltarmi. Sono certo che ricorderai ogni mia parola. Se poi la memoria non ti aiuterà, ci penserà il cuore.
Sentivo la sua voce farsi meno continua, meno calma, come presa da una improvvisa frenesia, associata ad un’emozione che lo stava scuotendo dall’interno. Mi misi comodo, distendendo le gambe e portando indietro le braccia a sostenere la schiena. Non chiesi nemmeno perché avesse scelto proprio me. Mi limitai a dire: “Sono pronto”. Florin cominciò di scatto a far partire le sue parole come fossero state liberate da una lunga prigionia. Il tono si fece più fermo e lento, come fosse un narratore esperto, distaccato dal contenuto del suo racconto.
- Ho 42 anni e sono nato a Bucarest. Sono arrivato in Italia nel 2002, quando avevo appena compiuto 31 anni. Non volevo lasciare la Romania, ma avevo bisogno di lavorare e guadagnare qualcosa, perché la mia famiglia non se la passava molto bene. All’epoca ero sposato e da quel matrimonio è nato un figlio, George. Sono andato via perché sapevo che in Italia si poteva lavorare e guadagnare bene. Con mia moglie le cose non andavano, discutevamo sempre e, un paio di mesi prima che decidessi di venire in Italia, ci siamo lasciati.
- Che lavoro facevi in Romania? – lo interruppi.
- Facevo l’infermiere in ospedale. Non guadagnavo abbastanza. Un mio amico mi convinse a partire. Lui era già stato a Torino per 5 anni ed era riuscito a mettere da parte dei soldi da mandare a casa. Così, lo seguii. I primi due anni li ho passati lì, facendo il muratore insieme a lui. Lavoravo anche di notte in un cantiere, che lasciavo la mattina presto, prima che arrivassero gli altri. Ovviamente in nero. Anche perché per la legge italiana a quel tempo i rumeni erano clandestini. Per lo Stato italiano non esistevo. Ho resistito un po’, poi sono tornato in patria per mio figlio e per gestire la separazione con mia moglie. Nel frattempo, un amico italiano è riuscito a farmi assumere come operaio in un’azienda di imballaggi, nel bresciano. Così sono tornato nell’estate del 2005. Ero contento, anche se mi mancava mio figlio, ma pensavo di aver finalmente svoltato. Un lavoro regolare, uno stipendio regolare.
- E invece?
- Invece è durato meno di un anno. Il proprietario dell’azienda è morto, i suoi due figli non erano in grado di portarla avanti, così prima hanno licenziato una parte dei lavoratori (me compreso), poi hanno venduto. Mi sono trovato con una stanza in affitto che non potevo più pagare e senza un lavoro. Intanto avevo trovato un nuovo amore, Maria, una collega, anche
lei rumena. Era di una piccola città nei dintorni di Bucarest e aveva tre anni meno di me. Bellissima e dallo sguardo fiero. Anche lei licenziata. Eravamo costretti entrambi a ricominciare. Una mattina di inizio luglio, mentre eravamo in giro a cercar lavoro, ci siamo fermati in un bar nei pressi della stazione di Brescia a prendere un caffè. Lì abbiamo incontrato un gruppo di connazionali in partenza. Uno di loro lo conoscevamo, perché aveva lavorato per un paio di mesi nella nostra fabbrica. Mi disse che stavano per salire sul treno in direzione Sud, verso la Puglia. Avevano saputo che in provincia di Foggia c’era lavoro. Nelle campagne si raccoglievano i pomodori. Né io né Maria avevamo mai lavorato in campagna, ma non c’era molta scelta. Due giorni dopo partimmo anche noi, con due zaini pieni delle poche cose che avevamo. Ci tenevamo stretti, non avevamo idea di cosa ci aspettasse. Maria non staccò mai la mano dalla mia per tutto il viaggio. Non era solita sorridere quando eravamo fuori dalla nostra stanza, ma ricordo il suo grande sorriso bianco quando, quasi giunti a Foggia, si svegliò dopo qualche ora di sonno poggiata sulla mia spalla e vide il sole che splendeva fuori dal finestrino del treno. I colori erano diversi da quelli delle campagne del nord. Non avevamo mai visto in vita nostra un cielo così limpido. Faceva un caldo torrido nello scompartimento, ma quello spettacolo di colori che scorreva veloce davanti ai nostri occhi fu un meraviglioso sollievo per il nostro umore.
La sua voce si indebolì in quel momento, come se i polmoni volessero trattenere il fiato. Tanto che ebbi difficoltà a sentire l’ultima sua frase. Mi domandavo perché mi stesse raccontando tutto questo e perché io ero lì, inerme, ad ascoltarlo. Avrei voluto interromperlo e chiedere le ragioni della scelta, come avesse fatto a trovarmi, a sapere che quella sera avrei fatto una passeggiata e sarei passato da lì. E poi avrei voluto sapere dov’era adesso questa sua donna, perché non era lì con lui. Ma qualcosa mi trattenne dall’aprir bocca, come se avessi la percezione che ciò di cui voleva informarmi fosse qualcosa di importante, che mi avrebbe segnato, sconvolto. Così, lasciai che continuasse il suo monologo.
- Arrivammo a Foggia e subito cercammo di metterci in contatto con quel connazionale che avevo incontrato al bar qualche giorno prima. Lo rintracciai e mi disse di raggiungerlo l’indomani in un paesino a mezz’ora di auto, dove si trovava lui. La sera, io e Maria dormimmo in un vagone della stazione. Non dimenticherò mai quella sera. Il giorno successivo incontrammo Vlad, che ci aspettava di fronte al municipio di quel piccolo borgo rurale tra Foggia e Cerignola. Eravamo stanchi ma felici di poter lavorare, convinti che sarebbe iniziata per noi una nuova vita. Insieme. E invece fu solo l’inizio dell’inferno.
La mano di Florin scattò con rabbia verso la corteccia del carrubo e lo colpì con violenza, proprio mentre pronunciava la parola “inferno”. Un gesto che stonava con l’apparente distacco o con la sporadica commozione con cui aveva fino ad ora raccontato la sua vicenda. Pensai ad un movimento maldestro e mi preoccupai si fosse ferito. Lui sembrò non sentirmi e continuò a narrare. Pensai che doveva essersi fatto molto male, ma col senno di poi ho capito che nessun dolore fisico può pareggiare l’inferno che alberga nel cuore di un essere umano.
- Vlad ci portò da un signore, pugliese, sulla quarantina, camicia bianca aperta sul petto, dove trionfava una collana d’oro molto spessa, bermuda beige e scarpe di tela blu. Ci guardò con disinteresse, ma non disse nulla. Lasciò che parlassimo con il suo guardaspalle, un giovane nordafricano, che tutti chiamavano Mohammed. Era un ragazzo molto alto e robusto, con una faccia segnata da rughe precoci, gli occhi lucidi, il naso largo e un sorriso sforzato che ogni volta, come una specie di tic, si trasformava in una smorfia. Fummo presentati a lui che ci chiese se fossimo stati disponibili a lavorare in campagna. Ci spiegò che l’orario di lavoro variava dalle 12 alle 16 ore al giorno e che la paga era di 3 euro per ogni cassone di pomodoro riempito. A ciò bisognava sottrarre 5 euro per il trasporto al campo e 5 per l’alloggio. Quindi, se avessimo riempito dieci cassoni avremmo guadagnato un netto di 20 euro. Una miseria. Ma per me e Maria era sufficiente per poter campare in attesa di tempi migliori. La prospettiva di tornare in Romania ci rattristava, soprattutto lei che in patria non aveva più nessuno che desiderasse rivedere. A me, inoltre, stava per scadere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro e così stavo per tornare un clandestino, nonostante il mio Paese fosse in procinto di entrare nell’UE. Accettammo, ma Mohammed ci disse che prima bisognava parlare con il suo superiore, ma non lì, subito, bensì il giorno dopo nel casolare del campo di raccolta. L’appuntamento era per il mattino seguente alle sei. Ricordo il viaggio terribile, insieme ad altri dieci rumeni, 4 donne e 6 uomini, in un furgoncino privo di finestrini, caricati come bestie. Al “colloquio” venivamo ammessi uno per uno e ognuno di questi durava circa 20 minuti. Maria venne chiamata per quarta. Uscì quasi mezz’ora dopo. Lo sguardo fisso, perso in qualche pensiero, la faccia stravolta. Mi guardò un momento, mentre veniva accompagnata tra le piante di pomodoro per iniziare a lavorare. Il mio cuore si riempì di rabbia, intuivo che fosse successo qualcosa. Iniziai a chiamarla a gran voce e chiedere cosa le fosse accaduto. Due uomini mi afferrarono da dietro colpendomi alla schiena e mi portarono dentro. Il pugliese, proprietario della terra, mi insultò e mi disse di star zitto, che se volevo lavorare non dovevo far storie, che dovevo farmi i fatti miei. Che dovevo ringraziare la mia donna se ero ancora lì e se da quel giorno avrei lavorato. Mi diedero due pugni e mi portarono di peso in un’altra zona del campo a lavorare, lontano da Maria. La sera ci riportarono indietro su furgoni diversi e ci lasciarono in
una casupola diroccata, senza acqua né luce, con il tetto sfondato e pericolante e le finestre senza infissi. Intorno non c’era che buio e la puzza di urina e di sporcizia ci entrava nei polmoni. Maria non parlava e alle mie domande rispondeva voltando lo sguardo e chiedendomi di tacere. Quella notte dormì lontana dalle mie braccia. Era la prima volta che non si stringeva a me. La sentii singhiozzare, provai ad accarezzarle i capelli, ma si allontanò. Fu così per due settimane, in cui passavamo le nostre giornate al lavoro dalle sei del mattino alle otto/dieci di sera. Poi una cena misera e subito a letto, su materassi lerci buttati a terra e ricoperti da un lenzuolo grande che Maria aveva portato da Brescia. Non parlava, il suo sguardo era fisso, perduto nel vuoto, non mi abbracciava più e non rispondeva alle mie domande. Ma io avevo capito tutto. Un giorno, finalmente, incrociai Mohammed e il pugliese. Erano venuti a controllare il nostro lavoro. Mi alzai in piedi al loro passaggio e mi misi davanti a loro. Mohammed mi intimò di abbassarmi e continuare a lavorare. Rimasi fermo e cominciai a urlare le mie accuse contro il proprietario. Sapevo che era successo con altre donne, sapevo degli stupri in cambio di lavoro. La mia coscienza mi imponeva di reagire. Sputai in faccia al pugliese, incurante delle minacce e delle urla di Mohammed, e contemporaneamente sferrai sul suo volto un pugno che lo fece cadere in terra come un pomodoro marcio. In pochi secondi Mohammed e altri tre suoi compari mi afferrarono e mi portarono via. Tornai a casa che era notte fonda, sanguinante e con il volto tumefatto, oltre che con la certezza che presto sarebbero tornati a completare l’opera. Maria aveva assistito da lontano alla scena, aveva tremato quando ero stato afferrato e portato via. Aveva cercato invano di ottenere mie notizie. Qualcuno le aveva assicurato che difficilmente mi avrebbero lasciato vivo, che quando uno reagiva ai padroni poi scompariva nel nulla e non se ne sapeva più niente. Era angosciata, convinta che fossi stato ucciso e che mi avesse perso per sempre. E invece fui io a perdere lei. Maria quella sera se ne andò nel modo più tragico. Suicida. Ricordo che svenni vedendola lì senza più respiro. Mi ripresi e vomitai più volte. Senza sosta. Presi i suoi documenti, glieli poggiai sul petto, chiamai la polizia e mi nascosi poco distante. L’ultima volta che la vidi, era stesa su una barella, coperta fino al volto.
Le lacrime cominciarono a scendere sul mio viso, non riuscivo ad accettare questa violenza, questo senso di assoluta disfatta dell’umanità, la violazione della dignità, di ogni diritto fondamentale. L’Italia, quella dei suoi abitanti definiti “brava gente”, svelava la sua menzogna più intima, mostrando la sua faccia più reale e cruda, quella dello sfruttamento, dell’omertà, della violenza impunita a due passi dai commissariati di polizia e dai comandi dei carabinieri. Adesso capivo perché Florin era lì, seduto sotto quell’albero immerso in un paesaggio quieto e poetico, lo stesso che di giorno in questi ed altri luoghi diventa teatro di un orrore taciuto, di sofferenze nascoste sotto il manto torturatore del ricatto. La sua voce questa volta non accennava a cedimenti. Il suo racconto
era lucido, trasparente in tutta la sua brutalità e annunciava il momento decisivo, quello per il quale aveva ottenuto inconsciamente la mia immediata disponibilità all’ascolto.
- Ero disperato, come puoi immaginare, in quel che restava di quella notte camminai lungo la strada provinciale rischiando più volte di essere ammazzato e nascondendomi ogni volta che vedevo spuntare un’auto della polizia. Mi addormentai esausto solo al mattino, adagiandomi sotto un albero. Passai tre o quattro giorni così, girando per le campagne, stando attento a non farmi vedere da nessuno, senza mangiare e bevendo di nascosto dai rubinetti delle tinozze esterne delle case e dei casolari. Un pomeriggio, ormai esausto per l’afa, decisi di andare in paese, verso le 19, per cercare di trovare qualcosa da mangiare che non fosse frutta o pomodori. Fu lì che venni a sapere che, la sera prima, il pugliese e il suo fedele guardaspalle erano stati aggrediti. Il pugliese ebbe la peggio e venne ritrovato morto in una pozza di sangue poco distante dalle casupole nelle quali dormivamo noi e gli altri lavoratori rumeni o bulgari. Aveva il cranio sfondato e una profonda ferita all’altezza dell’apparato genitale. Mohammed, invece, era ricoverato in ospedale in gravi condizioni. Anche lui era stato colpito alla testa, mentre il corpo aveva poche ossa ancora sane. Immediatamente pensai al sorriso di Mohammed e a quella smorfia che ora non gli era possibile mostrare, ma soprattutto pensai al pugliese, a terra, inerme, innocuo. Finalmente innocuo. Pensai al suo senso di onnipotenza sepolto tra le pietruzze e la terra, a poca distanza dalla miseria su cui esso si edificava, con la camicia bianca macchiata dal rosso del suo sangue, così uguale a quello dei suoi dannati pomodori. Ricordo che a pochi metri da me c’era il banchetto di un fruttivendolo. Istintivamente afferrai uno di quei pomodori e lo strizzai con tale rabbia che la polpa schizzò sulla mia maglietta con una velocità fulminea. Di colpo mi sentii senza forze. Non capivo la frustrazione che pizzicava le corde dei miei nervi; era come un senso di incompiuto. Quella fine violenta non riusciva a rendermi giustizia. Non a me né soprattutto a Maria. Non so spiegarmi come si svolse tutto quello che avvenne dopo. Ricordo solo che camminai a lungo, passando più volte dagli stessi posti. Tornai anche alla casupola e vidi i nastri della polizia di fronte ad uno dei viali interni, quelli che permettevano il passaggio da una casupola ad un’altra. Mi accorsi che il pugliese era stato finito proprio a meno di trenta metri dalla casa in cui dormivamo io e Maria. Il suo corpo era stramazzato al suolo dinnanzi al tugurio di Olga e Peter, una coppia di connazionali provenienti da Craiova, che lavoravano nelle campagne di Foggia da più di un anno. Non c’era nessuno nei dintorni. Erano scappati via tutti oppure erano stati presi dalla polizia per capire chi avesse compiuto il delitto. Così, me ne andai pensando a chissà cosa. La sera ero seduto davanti all’ispettore
di polizia che raccoglieva la mia confessione. Mi ero presentato in caserma alle 22 e avevo ammesso di essere l’autore di quel delitto.
- Hai ucciso tu quell’uomo? – farfugliai.
- Vorrei averlo fatto.
- Non capisco. Lo hai ucciso tu o no?
- No. Ma ho ammesso di essere l’assassino.
- Perché? – domandai alzando inavvertitamente il tono della voce.
- Perché la mia mente desiderava farlo sin dal giorno del colloquio, quando capii che Maria aveva subito violenza. Ma forse l’ho desiderato già prima, quando ho compreso quanto sfruttamento si nascondeva dentro quei luoghi illuminati dal sole. Ogni giorno, quando curvo sul campo strappavo i pomodori e li infilavo nei cassoni, sentivo il sole che mi batteva forte la schiena, come fosse una frusta che stimola la bestia a lavorare di più. Ho sempre amato il sole, mi regalava gioia. Mi aveva regalato anche il sorriso più bello di Maria, dentro lo scompartimento di un treno bugiardo, che dietro le sue sembianze civili celava in realtà la sua vera funzione di carro bestiame, di traghetto su rotaie diretto agli inferi. Appena sceso da quel treno, avevo provato a guardarlo quel sole, ma mi lasciò cieco per quasi un minuto. Avrei dovuto capire il suo inganno, la sua menzogna. Ora so che tutto quello che brilla è un’illusione. E lo detesto. Così, ho deciso di prendermi gioco del destino. So chi ha ucciso il pugliese e quasi ucciso Mohammed. L’ho appreso in carcere, quando un amico di Peter e Olga mi ha fatto sapere che Peter voleva autodenunciarsi e scagionarmi, ma l’ho convinto a non farlo, che altrimenti avrebbe ucciso anche me.
- Perché hai voluto pagare al suo posto?
- Perché volevo riconsegnarmi un po’ di giustizia. Volevo far sapere a tutta quella gente che in quella violenza, alla fine, avevano perso loro. E così sono riuscito anche a far sapere cosa Maria avesse subito da loro. Mi sono sentito meglio. Anche se in carcere, in quel carcere mi sono ammalato e pochi mesi fa sono morto. Per me adesso il sole non sorge più.
- Cosa? - esclamai sobbalzando e gettando d’istinto le mani sulle mie ginocchia - Vuoi dire che….
- Voglio dire che questo è il motivo per cui non ho voluto che mi vedessi. Dovevo parlare con te, in questo posto, questa notte, al buio. Volevo solo che tu mi ascoltassi.
- Perché proprio io? – chiesi con un tono imbarazzato e sconvolto
- Perché in questa menzogna di stelle e colline, sei rimasto sveglio per entrarci dentro. Senza paura. Adesso potrai scrivere questa storia e raccontarla. E dentro il mio nome e quello di
Maria potrai infilare il dolore di altre centinaia di migliaia di persone truffate e umiliate da questo tuo Paese. Dove anche il sole è una menzogna.


 Massimiliano Perna, Manrico Mosti, Elisa Zadi.