23/02/11

sul volto

La complessità del volto come oggetto osservabile, decifrabile descrivibile, da sempre ha posto una quantità di quesiti a cui, in tempi diversi, si è tentato di dare risposta: ora spiegando l'intero macrocosmo attraverso il volto, ora facendo del volto l'intero macrocosmo, ora considerandolo come specchio trasparente delle passioni, ora come maschera infida prodotta dal gioco della simulazione sociale.
Tracce delle mille contraddizioni di cui vive il volto all'interno dell'immaginario collettivo sono inscritte, seppure in modo sconnessoe frammentario, nella storia etimologica dei termini che, all'interno della lingua naturale, lo designano: volto, viso, faccia; in latino vultus, facies; in francese chère, face, figure, vis, visage, vout...
Il volto innanzitutto come visione, ma anche, nello stesso tempo, come soggetto attivo dell'atto di vedere. Viso deriverebbe dal termine del latino volgare visus, participio passato di vidère, "vedere". In questo senso sarebbe spiegato, dicono i dizionari, l'uso arcaico di viso come sinonimo di "vista", "sguardo". Probabilmente, su questa attività percettiva, in quanto direttamente più legata al pensiero, si fonda la grande catena associativa che giunge  a fare del volto, sede privilegiata della vista, il simbolo stesso dell'uomo.
Ma il volto è soprattutto, in senso passivo, visus, quanto di noi, della nostra persona e non solo del nostro corpo, è più esposto alla visibilità. E' quanto di noi resta più impigliato nel gioco degli sguardi, del vedere e dell'essere visti, del far mostra di sé e del nascondersi.
Il viso non è dunque una semplice parte del corpo. Attraverso il viso, l'altro che ancora non esisteva, a un tratto, entra nel campo delle cose visibili. Non come cosa tra le cosa: è nel viso che si compie la presenza.

Patrizia Magli "Il volto e l'anima"


Elisa Zadi, Della Melanconia 1.
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